BENE FONDAMENTALE PER LA PERSONA E QUESTIONE MORALE
di DANIELE CIRAVEGNA
Con il lavoro (se il lavoro è dignitoso e realizza la sua autonomia personale, punto essenziale della sua dignità), l’essere umano partecipa allo sviluppo economico, sociale e culturale dell’umanità; dà prova dei propri talenti. Il lavoro è fattore primario dell’attività economica e chiave di tutta la questione sociale e non deve essere inteso soltanto per le sue ricadute oggettive e materiali, bensì per la sua dimensione soggettiva, in quanto attività che permette l’espressione della persona e costituisce quindi elemento essenziale dell’identità personale e sociale della donna e dell’uomo.
Papa Francesco quasi quotidianamente sottolinea che nel lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale, l’essere umano esprime e accresce la dignità della propria vita; che il lavoro è qualcosa di più che guadagnarsi il pane. Il lavoro dà la dignità e che non si dica “chi non lavora non mangia”, ma “chi non lavora ha perso la dignità!”. Chi lavora è degno; ha una dignità speciale; una dignità di persona: l’uomo e la donna che lavorano sono degni e il lavoro appare, non come effetto di un calcolo economico utilitaristico riguardante l’impiego ottimale del tempo a disposizione (che è l’approccio, ad esempio, della teoria economica neoclassica), ma come espressione della creatività e della realizzazione della persona, permettendone l’integrale sviluppo. Per questo, il lavoro non è un dono concesso a pochi raccomandati; è un diritto per tutti!
Il lavoro non è necessario solo per l’economia, ma per la persona umana, per la sua dignità, per la sua cittadinanza e anche per l’inclusione sociale. Tutto questo porta alla presa di coscienza che, mentre in passato era considerato “povero” chi non poteva accedere a livelli decenti di consumo, oggi “povero” è, oltre a chi si trova nella situazione precedente, anche chi è lasciato o tenuto fuori dai circuiti di produzione di beni (e quindi è costretto all’irrilevanza economica) o vi è inserito con un lavoro non dignitoso (e quindi è costretto all’irrilevanza umana); per essi è invalso l’uso del termine working poor.
In effetti, un modo necessario per eliminare la povertà è che venga assicurato un lavoro a tutti; non è però sufficiente, poiché il lavoro assicurato a tutti dev’essere dignitoso per tutti. La persona che non ha un “lavoro dignitoso” continua a essere “povero”, che è concetto più ampio rispetto a essere in stato di deprivazione materiale: una persona che ha accesso a un lavoro che non è “dignitoso” è “povero” anche se può, col suo lavoro, essere non in stato di deprivazione materiale. Esiste poi la povertà non di tipo economico: la solitudine, la povertà di relazioni interpersonali, la povertà di spirito comunitario, la bassa qualità della convivenza collettiva, la povertà culturale, la povertà spirituale ecc. Perciò un lavoratore può essere “povero” per via di un salario troppo basso per la sussistenza propria e della sua famiglia (anche se lavora a tempo pieno e, a maggior ragione, se ha un lavoro a tempo parziale) oppure soffre di deprivazione non economica. Di fatto, tenendo conto di tutte le sfaccettature sopraddette che la povertà può assumere, si può anche pensare che la povertà non sia mai annullabile completamente.
Le parole precedenti ripropongono il tema di una vera cultura del lavoro, che non può realizzarsi se non a séguito di un comune sforzo educativo che aiuti i giovani e i non giovani a capire tutte le dimensioni del lavoro. La dimensione non solo oggettiva, ma anche la dimensione soggettiva, che non può non essere sociale, oltre che individuale. Il lavoro come occasione di formazione e di sviluppo personale; il valore del lavoro che dipende soprattutto dalla persona che vive il lavoro, ma che dipende anche da un corretto sviluppo del lavoro e da una chiara visione dei lavori, dei diversi tipi di lavoro compresi nella loro essenza, e non semplicemente nei loro aspetti superficiali e alla moda.
Ad ogni modo, la persona umana è l’obiettivo finale (l’assoluto etico) rispetto al quale il lavoro è l’obiettivo intermedio principale, anche se non di solo lavoro vive l’uomo. Dai contenuti di diversi documenti della Dottrina sociale della Chiesa possiamo creare la seguente sequenza etica del lavoro: il lavoro è un bene dell’uomo, per l’uomo e per la comunità; l’uomo ha il primato sul lavoro, perché il lavoro è per l’uomo e non l’uomo per il lavoro e per l’economia; il lavoro ha il primato sul capitale e non il lavoro è al servizio del capitale; in prima sintesi, la fabbrica (lavoro e capitale) è per l’uomo e non l’uomo per la fabbrica.
Il lavoro riveste primaria importanza per la realizzazione dell’uomo e per lo sviluppo della società e per questo occorre che esso sia sempre organizzato e svolto nel pieno rispetto dell’umana dignità e al servizio del Bene Comune. Così dicendo, si dà al lavoro, all’attività produttiva, all’economia un’impostazione antropologica; se così non fosse, si finirebbe per trattare il lavoro quale semplice “forza lavoro”, alla stregua di qualsiasi altro fattore produttivo, di qualsiasi altra fonte di energia.
Il lavoro fa parte della vita, ma non è la vita dell’uomo. Oggi, soprattutto nei paesi altamente sviluppati, ci sono molte persone che sembrano vivere solo per il lavoro, dal quale dipendono pressoché totalmente. È il lavoro che dice agli altri chi è la persona stessa; è il lavoro che crea le gerarchie sociali.
Eppure la donna e l’uomo si realizzano certamente nel lavoro espletato, ma non in modo esclusivo: la persona è sempre più del lavoro in cui si esprime.